venerdì, luglio 21, 2006

Paradossi


La vicenda Mladić è paradossale.
Ricapitoliamo: un intero Paese è in ostaggio di un uomo solo; l'Unione Europea imposta ogni relazione con la Serbia solo sulla base di quest'uomo (distruggendo così qualsiasi credibilità a quelle parti politiche europeiste e non nazionaliste; ma poi i giovani studenti serbi, che non ottengono un maledetto visto per studiare o anche solo visitare l'Unione Europea, cosa caspita c'entrano con Mladić? Loro, mentre lui giocava al piccolo hitler erano ragazzini, e vivevano sotto sanzioni internazionali. Poi, più grandicelli, si sono anche dovuti sorbire tre intensi mesi di bombardamenti; ma a Bruxelles mica ci pensano a questi dettagli...).
Certo è difficile negare che il Governo serbo non sembra proprio entusiasta all'idea di spedire il piccolo Ratko in gita premio all'Aja, (politika qualche giorno fa ha "scoperto" che il generalissimo è stato a Belgrado in vari appartamenti, con tanto di indirizzi, incredibile.. chi l'avrebbe mai detto?).
D'altronde da Kostunica (uno che faceva i poster elettorali con un bel fucile sulla spalla live from kosovo) che v'aspettate?
A parte il rischio che i radicali dopo un eventuale arresto di Mladić potrebbero stravincere le elezioni (anche grazie al Tribunale dell'Aja che detiene da tre anni il loro leader šešelj senza cominciare il processo...)e rispedire la Serbia in uno splendido isolamento di stampo medievale al momento onestamente mancano segnali di ottimismo.
E non parliamo del Kosovo che è meglio!

giovedì, luglio 20, 2006

Senza se e senza ma: la pace senza i pacifisti.


Caro Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto; sarebbe meglio farlo
di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato, ma tu sarai così generoso
da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede libero, in
un autogrill.

Comincerò con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il
mio eroe.
Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione, ora smina da volontario
coi miei amici di InterSos in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane
donna, in Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria.


Voleva salvare vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire
di campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine:
gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera.
Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te.
Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia
bisogna che qualcuno si occupi della questione generale, di mettere al bando
le mine, la produzione, lo smercio, l'impiego eccetera.

Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a disinnescare
o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni di mine;
si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura dietro
l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra,
posatrice di mine e avida di mutilazioni.

Tu curi la gente, e quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci,
ti affidi all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle
vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace,
c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo
che voglio litigare.

Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi
la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una
domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro:
"Buskashi").
Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far
finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare.
Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra.

In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed
eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una
specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo Taliban.
Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini, territorio infeudato
a un'Internazionale del terrore.

Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia
dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11
settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi,
e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire
a riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel paese. Non
sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse il leader da sostenere.


Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza
macchia, benché fosse un eroe.
Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di
concentramento e di torture.
Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute,
e c'è bisogno urgente di soccorso.

È così nella cura per la salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla
salute, c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il
ricorso alla chirurgia.
Le persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta
salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia:
e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo Afghanistan
non successe niente.

Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre,
l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana
- e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato
in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a
Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente
contro l'Afghanistan del mullah Omar.

Ogni volta che si ricorre alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti.
Ma in Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di guerre.
Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan
del dopo 11 settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda,
bisognava intervenire?
Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse
il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque
come a un'infamia bellicista?

Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col
proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di
innocenti, fosse pure un solo innocente.
Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il convincimento
morale di un singolo individuo.
Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista.

Un responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere
relativa, non è meno rigorosa.
Non si illude di escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti,
ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri,
anche i più colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura
sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone innocenti,
e dei bambini.
Non ammette che, in nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino
oggi degli innocenti.
Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria
gente.

Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in qualunque
altro luogo del mondo.
Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente
a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato.
Solo il pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo.

L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti
cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in
Afghanistan sono più numerosi o molto meno?
Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate sono più o meno? Si
mettono nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o meno?

È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle
donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A
Kandahar, lo portano pressoché tutte.
A Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate.
Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di
più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono pagate
dai fotografi occidentali!

Affermazione enorme, se fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto
ti stia a cuore quel paese.
Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul
non viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi?
Perché nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario,
sembra di leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era?
Perché il ritorno di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene
salutato con le lacrime agli occhi?

Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito
per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più
che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi
proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale
che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra
Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in
pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo,
non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva,
lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano.

L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale.

Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace,
ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata
internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni,
come a Timor est.

Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia,
e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione
fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro.
Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata
che sia.
Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature
assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima, spiegazione.
Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba essere la
condizione della convivenza civile in ogni parte del globo.

Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati
a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli
della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di
mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo.

Non riesco a capacitarmene, e mi spaventa.
Mi spaventano le persone che mi sono care, note e ignote, che ripetono generosamente
di essere sempre e comunque contro l'impiego della forza.
Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica,
e che cosa è successo, e quando.

Adriano Sofri

mercoledì, luglio 19, 2006

Pio XII e le foibe




Pio XII, già accusato di avere taciuto sui lager nazisti, tacque sulle stragi di italiani compiute dai partigiani di Tito nel '45. A indicarlo sono i documenti segreti conservati negli archivi, che Panorama ha consultato in anteprima

Una nuova ondata di polemiche rischia di investire la figura di Pio XII, accusato di essere stato «il Papa di Hitler» per l'atteggiamento troppo prudente e remissivo che avrebbe tenuto nei confronti del regime nazista. Tornano sotto esame i «silenzi» di Papa Eugenio Pacelli.
Ma questa volta non più sull'Olocausto bensì sulle stragi perpetrate dai comunisti di Tito nella Venezia Giulia a partire dal maggio 1945: migliaia di italiani uccisi dall'Armata di liberazione iugoslava, gettati ancora vivi nelle foibe (voragini carsiche), imprigionati e condotti nei campi di concentramento a morire di stenti, oppure costretti all'arruolamento forzato.

Nell'Archivio segreto vaticano è custodito un fondo, fino a oggi inedito, che raccoglie i documenti relativi a questo dramma. Alcuni riportano anche la dicitura Vsp («Visto dal Santo Padre»), segno che Pio XII era puntualmente informato su quanto stava accadendo al confine nordorientale dell'Italia.
Copia del materiale è conservata nell'archivio di Civiltà cattolica ed è stata studiata da Giovanni Sale, storico dell'autorevole rivista dei gesuiti. Per padre Sale i documenti vaticani sulle foibe, che Panorama pubblica in esclusiva, sono di straordinaria importanza poiché registrano minuziosamente quanto accadde nelle settimane immediatamente successive alla liberazione di Trieste, il 1° maggio 1945.

«Migliaia di italiani furono uccisi dall'esercito di Tito e dai partigiani iugoslavi, che avevano occupato quella regione con l'intento di annetterla alla nuova Repubblica socialista di Iugoslavia» spiega il gesuita.
Anche se, in realtà, «delle migliaia di italiani trucidati dai titini soltanto una parte furono infoibati, mentre la maggior parte di essi morirono per fame, per malattia o in seguito ai maltrattamenti subiti nei campi di concentramento iugoslavi».

Secondo i dati raccolti da uno dei maggiori studiosi italiani delle foibe, Raoul Pupo, «le ipotesi più attendibili parlano di 600-700 vittime dopo l'8 settembre 1943, quando a essere coinvolta fu soprattutto l'Istria, e di oltre 10 mila arrestati nel 1945, in massima parte ma non esclusivamente italiani, quando l'epicentro delle violenze fu costituito da Trieste, Gorizia e Fiume».
Almeno 3.500 o 4 mila prigionieri, riferisce Pupo, non fecero più ritorno a casa.
«Furono principalmente i cadaveri dei fucilati» riferisce «a venire gettati nelle foibe e in altre cavità artificiali, ma in alcuni casi nell'abisso vennero precipitate anche persone ancora in vita: talvolta infatti i condannati venivano fatti allineare sull'orlo della foiba, legati fra loro con filo di ferro e i colpiti dalla scarica trascinavano giù con sé gli altri».
Vicende sulle quali la storiografia ha steso per troppo tempo un velo di silenzio, finché il Parlamento nel 2004 ha istituito la Giornata della memoria delle foibe, il 10 febbraio di ogni anno.

I documenti rinvenuti da padre Sale testimoniano come nelle settimane successive all'ingresso a Trieste dell'armata iugoslava le autorità ecclesiastiche della Venezia Giulia, i rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale, ufficiali alleati e singoli cittadini inviarono alla segreteria di Stato segnalazioni e denunce sulla drammatica situazione della regione, chiedendo un immediato intervento del Papa.




Drammatico il dispaccio dalle carceri di Capodistria il 6 maggio '45: «Arrivati oltre 2 mila prigionieri: racimolati in Istria. Sono tedeschi, italiani, persino slavi e ungheresi. Venuti a piedi, molti sono scalzi, tutti affamati. Pigiati dovunque, nei cameroni, nei corridoi, al buio, nella casa di pena». 7 maggio: «La fame non permette ai disgraziati di tenersi in piedi». 8 maggio: «In infermeria ci sono 4 malati di pleurite, 2 malarici, adagiati vestiti su lettucci sudici. In uno stanzone v'è una ventina di ufficiali italiani, accasciati e affamati».

Terribili anche le notizie che arrivano alla Santa Sede dal campo di concentramento di Cusaz: «Ventimila persone sono in questo campo senza nessun ricovero, all'addiaccio, con limitatissimo nutrimento e moltissimi al giorno muoiono».
In un altro documento si legge: «Venerdì 4 maggio sono partite da Trieste circa 150 guardie di finanza italiane fatte prigioniere senza alcun motivo. Si erano riunite per aiutare a liberare la città dai tedeschi. Sono state uccise durante il viaggio, un po' qua e un po' la. E furono fatte a pezzi».
Il 23 maggio 1945, il deputato di Fiume Andrea Ossoinack invia al ministro degli Esteri Alcide De Gasperi un appunto sulle violenze commesse a Fiume e lo trasmette per conoscenza in Vaticano: riferisce di arresti, omicidi, deportazioni compiuti all'indomani dell'ingresso in città delle truppe di Tito.
Il 20 luglio '45 la Pontificia commissione di assistenza trasmette alla segreteria di Stato la lettera di un ufficiale dell'esercito alleato sulla situazione dei prigionieri italiani e slavi: «Migliaia sono stati massacrati nelle foibe e nelle voragini di San Canziano. Migliaia vengono fatti morire di fame nei campi di concentramento. È un sadico sterminio. Il vescovo e la Croce rossa hanno documenti a migliaia. Non si può far intervenire il Vaticano o l'Unrra (l'Amministrazione delle Nazioni Unite per l'assistenza e la ricostruzione, ndr) o la Croce rossa internazionale?».

Sono soprattutto le autorità ecclesiastiche locali a sollecitare un intervento del Papa per fermare le stragi compiute sotto gli occhi dell'esercito angloamericano.
Fra i più attivi il cardinale Adeodato Giovanni Piazza, patriarca di Venezia, e Antonio Santin, vescovo di Trieste.
Un sacerdote di Fiume, Pierluigi Santarelli, lancia un appello al Papa perché venga in soccorso degli italiani finiti sotto l'amministrazione iugoslava dopo l'accordo di Belgrado del 9 giugno '45.
Di fronte a una mole così ampia di denunce era lecito attendersi una risposta immediata di Pio XII per fermare la violenza comunista.

Invece niente di simile emerge dai documenti esaminati da padre Sale. Solo un appunto stringato, inviato all'ambasciata britannica presso la Santa Sede e a Harold Tittman, consigliere diplomatico di Myron Taylor, rappresentante in Vaticano del presidente degli Stati Uniti, Harry Truman. La segreteria di Stato chiede alle autorità alleate di fare «quanto in loro potere per salvare la vita di tanti infelici».

La nota diplomatica era stata preceduta da un breve accenno del Pontefice alla «triste» situazione della Slovenia e della Croazia contenuto nell'allocuzione rivolta al collegio cardinalizio il 2 giugno '45.
Resta da verificare se in altri fondi archivistici sia conservata traccia di interventi di Pio XII in aiuto degli italiani della Venezia Giulia. E forse sarà necessario attendere anni. Ma sulla base di quanto è stato possibile appurare finora, gli storici si dividono nel valutare l'atteggiamento di Papa Pacelli sulle foibe.

«È vero, forse fu silenzio da parte di Pio XII su questo fronte» dice Andrea Riccardi, «ma occorre tenere presente che al termine della guerra Pio XII non si trovò a dover fronteggiare solo la situazione della Venezia Giulia, ma anche di Croazia, Ungheria, Ucraina, Romania.
L'avanzata comunista era appena cominciata e già metteva in pericolo la sopravvivenza della Chiesa con persecuzioni che sarebbero sfociate nell'arresto dei cardinali Alojzije Stepinac in Croazia e József Mindszenty in Ungheria».

Padre Sale ascrive invece la prudenza del Papa alla difficoltà di valutare tempestivamente i fatti. «In Vaticano spesso le notizie giungevano settimane dopo che gli avvenimenti si erano compiuti e quando ormai anche la situazione politica era mutata. È comprensibile perciò che il Pontefice esitasse a prendere delle posizioni che potevano risultare controproducenti o tardive».

Raoul Pupo, infine, invita a distinguere l'atteggiamento del clero locale da quello del Vaticano: «Stragi e deportazioni furono esplicitamente denunciate dai vescovi dei territori coinvolti.
Le segnalazioni giunte a Roma rafforzarono la convinzione del Vaticano che la situazione delle popolazioni, in particolare dei cattolici, nei paesi sotto controllo comunista sarebbe stata assai grama.
E dietro le scarne parole del Papa stava dunque anche il timore di inasprire una realtà di persecuzioni e di stragi che riguardava tutta l'area in cui Tito stava instaurando il suo regime».
Si apre comunque un inedito fronte di discussione su Pio XII mentre l'iter della causa di beatificazione che potrebbe portarlo sugli altari ha superato l'esame della commissione storica e si appresta a passare alla commissione teologica.
Le sorprese non sono finite.

Bandiera della Jugoslavia che fu