mercoledì, novembre 02, 2011

Belgrado secondo La Stampa


Segnalo un interessante reportage di Francesco Semprini sull'edizione odierna de "La Stampa".
Sull'edizione cartacea si può leggere anche un'intervista all'ambasciatrice in Italia, Ana Hrustanović.

"Noi, la porta dell’Occidente" Belgrado ha voglia d’Europa


Il Paese vuol chiudere col passato ma i nazionalisti soffiano sul fuoco del Kosovo

FRANCESCO SEMPRINI

BELGRADO

«Per capire la nostra terra basta leggere lo stemma della nostra capitale». Srbobran è un signore di mezza età, brizzolato e dalle profonde rughe intorno ai grandi occhi neri dai quali traspaiono le sofferenze che la storia ha inferto alla sua gente. Di professione fa la guida turistica, ha il merito di parlare un buon inglese e di essere un profondo conoscitore di storia. «Lo stemma di Belgrado - dice - è stato disegnato nel 1931 dal pittore Ðorde Andrejevic-Kun». Rappresenta una fortificazione con mura bianche a simboleggiare l’urbe il cui nome significa «città bianca», con le porte delle mura aperte a indicarne la vocazione commerciale e le torri che ne rappresentano la sovranità ma allo stesso tempo la fortificazione contro il nemico invasore. Al di sotto, due linee bianche ondulate rappresentano i due fiumi, la Sava e il Danubio, lungo le cui sponde sorge Belgrado. Una trireme romana rappresenta l’antichità della città, la sua indole storica, celtica, romana, bizantina, bulgara, magiara e slava, il bastione più estremo dell’Occidente contro il pericolo ottomano, «devastata e ricostruite tante volte, troppe per chi l’ha abitata», prosegue Srbobran.

I colori dello stemma sono quelli della grande Jugoslavia: oltre al bianco, il rosso che simboleggia le sofferenze della città durante tutta la sua storia e il blu, simbolo di fiducia e speranza per il futuro. «Bisogna partire da qui per iniziare il viaggio nella Serbia del nuovo millennio», dice la nostra guida, da quella dicotomia tra rosso e blu, da quella confluenza tra Sava e Danubio, che se da una parte consentono a Belgrado di vestirsi a festa, dall’altra definiscono la toponomastica politica della Serbia, un Paese al bivio.

In marcia verso Bruxelles Il 12 ottobre di quest’anno la Commissione europea ha adottato la propria opinione sul «dossier Serbia» raccomandando che al Paese balcanico fosse conferito lo status di «candidato membro» dell’Unione. A giudicare le aspirazioni continentali della nazione saranno i 27 Paesi aderenti all’Ue nell’ambito di un dibattito promosso dal Consiglio europeoche avrà inizio nella prima metà di dicembre. Il cammino della Serbia verso l’Europa è iniziato nell’ottobre 2000, con l’avvio di una serie di riforme democratiche per mezzo delle quali il Paese ha cercato di chiudere uno dei capitoli più dolorosi della sua storia: la crisi della ex federazione, lo smembramento, il predominio di Slobodan Miloševic e del suo Partito Socialista di Serbia (Sps), erede della Lega dei Comunisti jugoslavi, la guerra ventennale e i bombardamenti della Nato. «Ancora ne portiamo i segni addosso» spiega Srbobran.

Belgrado ne è un esempio, non solo per le ferite visibili sui muri dei propri edifici, ma per quella dicotomia che contraddistingue il suo animo. Frizzante, divertente, occidentale per alcuni versi come dimostrano i tanti locali pubblici, le migliaia di giovani griffati Nike, Adidas e Prada che animano la città, l’Art Hotel in stile modern-decò, e l’ateneo cittadino «okkupato e in rivolta» per il caro-libri, ma anche profondamente cristiano-ortodossa.

Sullo sfondo c’è un Paese che cerca di riscattarsi da una crisi politica ed economica che lo ha visto prima scontare vent’anni di conflitti, poi diventare vittima (senza troppe colpe) di quella crisi finanziaria che dopo aver azzoppato i protagonisti della vita economica del pianeta, ha gambizzato le comparse. Eppure ciò non impedisce alla Serbia di guardare all’Europa e di procedere all’iscrizione nel club dei candidati, dopo aver proceduto a una serie di iniziative importanti.

«Siamo riusciti a ottenere la liberalizzazione dei visti, una delle priorità per far parte dell’Unione. Abbiamo avviato una importante riforma del sistema giudiziario, c’è stata una campagna di lotta al crimine e alla corruzione, quindi la normalizzazione dei rapporti con i vicini», sottolinea Srdjan Majstorovic, responsabile dell’ufficio per l’Integrazione nella Ue. Poi c’è il grande capitolo delle riforme economiche, quelle attraverso le quali il Paese mira a rilanciare la crescita e abbattere la disoccupazione che, se in linea generale si aggira vicino al 20%, sul piano giovanile sfiora la quota orbitale del 50%.

Il nodo Kosovo Le elezioni parlamentari del maggio 2008 sono state caratterizzate da un sostanziale pareggio tra blocco europeista sostenuto dal presidente Tadic, al 39% al pari di quello conservatore. Ma quanti serbi in realtà aspirano a diventare europei? Secondo Marko Blagojevic, del Centre for Free Elections and Democracy, la percentuale di contrari all’entrata del Paese in Europa è balzata oltre il 50% in occasione della recente crisi nel nord del Kosovo. La questione kosovara è il vero punto nevralgico. Ed è qui che emergono ancora una volta le due anime del Paese: quella più conciliante del premier Cvetkovic, che dalla grande sala del palazzo governativo di Kneza Milosa evita i toni concitati e sottolinea come oggi l’Italia sia, con la Germania, l’interlocutore privilegiato: e quella più ruggente e corsara del ministro degli Interni Ivaca Dacic, che non ha remore a spiegare che «le barricate sono una forma di protesta civile e legittima contro una logica che appare maledettamente simile a quella di Yalta».

Ma è nel mezzo che forse si identifica il vero animo serbo, come spiega Borislav Stefanovic, capo negoziatori per Belgrado della questione kosovara. Inglese fluente e abito italiano, non risparmia attacchi ai metodi corrotti di qualche faccendiere di etnia serba di Mitrovica, ma altrettanto schiettamente dice che le connivenze con certi ambienti di Pristina sono palesi. «Abbiamo subìto minacce, ma il nostro cammino verso l’Europa proseguirà, senza regalare nulla a nessuno, perché alcuni burocrati devono farsene una ragione: ciò che viene deciso a tavolino non è detto che sia giusto per forza».

Bandiera della Jugoslavia che fu