mercoledì, luglio 19, 2006

Pio XII e le foibe




Pio XII, già accusato di avere taciuto sui lager nazisti, tacque sulle stragi di italiani compiute dai partigiani di Tito nel '45. A indicarlo sono i documenti segreti conservati negli archivi, che Panorama ha consultato in anteprima

Una nuova ondata di polemiche rischia di investire la figura di Pio XII, accusato di essere stato «il Papa di Hitler» per l'atteggiamento troppo prudente e remissivo che avrebbe tenuto nei confronti del regime nazista. Tornano sotto esame i «silenzi» di Papa Eugenio Pacelli.
Ma questa volta non più sull'Olocausto bensì sulle stragi perpetrate dai comunisti di Tito nella Venezia Giulia a partire dal maggio 1945: migliaia di italiani uccisi dall'Armata di liberazione iugoslava, gettati ancora vivi nelle foibe (voragini carsiche), imprigionati e condotti nei campi di concentramento a morire di stenti, oppure costretti all'arruolamento forzato.

Nell'Archivio segreto vaticano è custodito un fondo, fino a oggi inedito, che raccoglie i documenti relativi a questo dramma. Alcuni riportano anche la dicitura Vsp («Visto dal Santo Padre»), segno che Pio XII era puntualmente informato su quanto stava accadendo al confine nordorientale dell'Italia.
Copia del materiale è conservata nell'archivio di Civiltà cattolica ed è stata studiata da Giovanni Sale, storico dell'autorevole rivista dei gesuiti. Per padre Sale i documenti vaticani sulle foibe, che Panorama pubblica in esclusiva, sono di straordinaria importanza poiché registrano minuziosamente quanto accadde nelle settimane immediatamente successive alla liberazione di Trieste, il 1° maggio 1945.

«Migliaia di italiani furono uccisi dall'esercito di Tito e dai partigiani iugoslavi, che avevano occupato quella regione con l'intento di annetterla alla nuova Repubblica socialista di Iugoslavia» spiega il gesuita.
Anche se, in realtà, «delle migliaia di italiani trucidati dai titini soltanto una parte furono infoibati, mentre la maggior parte di essi morirono per fame, per malattia o in seguito ai maltrattamenti subiti nei campi di concentramento iugoslavi».

Secondo i dati raccolti da uno dei maggiori studiosi italiani delle foibe, Raoul Pupo, «le ipotesi più attendibili parlano di 600-700 vittime dopo l'8 settembre 1943, quando a essere coinvolta fu soprattutto l'Istria, e di oltre 10 mila arrestati nel 1945, in massima parte ma non esclusivamente italiani, quando l'epicentro delle violenze fu costituito da Trieste, Gorizia e Fiume».
Almeno 3.500 o 4 mila prigionieri, riferisce Pupo, non fecero più ritorno a casa.
«Furono principalmente i cadaveri dei fucilati» riferisce «a venire gettati nelle foibe e in altre cavità artificiali, ma in alcuni casi nell'abisso vennero precipitate anche persone ancora in vita: talvolta infatti i condannati venivano fatti allineare sull'orlo della foiba, legati fra loro con filo di ferro e i colpiti dalla scarica trascinavano giù con sé gli altri».
Vicende sulle quali la storiografia ha steso per troppo tempo un velo di silenzio, finché il Parlamento nel 2004 ha istituito la Giornata della memoria delle foibe, il 10 febbraio di ogni anno.

I documenti rinvenuti da padre Sale testimoniano come nelle settimane successive all'ingresso a Trieste dell'armata iugoslava le autorità ecclesiastiche della Venezia Giulia, i rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale, ufficiali alleati e singoli cittadini inviarono alla segreteria di Stato segnalazioni e denunce sulla drammatica situazione della regione, chiedendo un immediato intervento del Papa.




Drammatico il dispaccio dalle carceri di Capodistria il 6 maggio '45: «Arrivati oltre 2 mila prigionieri: racimolati in Istria. Sono tedeschi, italiani, persino slavi e ungheresi. Venuti a piedi, molti sono scalzi, tutti affamati. Pigiati dovunque, nei cameroni, nei corridoi, al buio, nella casa di pena». 7 maggio: «La fame non permette ai disgraziati di tenersi in piedi». 8 maggio: «In infermeria ci sono 4 malati di pleurite, 2 malarici, adagiati vestiti su lettucci sudici. In uno stanzone v'è una ventina di ufficiali italiani, accasciati e affamati».

Terribili anche le notizie che arrivano alla Santa Sede dal campo di concentramento di Cusaz: «Ventimila persone sono in questo campo senza nessun ricovero, all'addiaccio, con limitatissimo nutrimento e moltissimi al giorno muoiono».
In un altro documento si legge: «Venerdì 4 maggio sono partite da Trieste circa 150 guardie di finanza italiane fatte prigioniere senza alcun motivo. Si erano riunite per aiutare a liberare la città dai tedeschi. Sono state uccise durante il viaggio, un po' qua e un po' la. E furono fatte a pezzi».
Il 23 maggio 1945, il deputato di Fiume Andrea Ossoinack invia al ministro degli Esteri Alcide De Gasperi un appunto sulle violenze commesse a Fiume e lo trasmette per conoscenza in Vaticano: riferisce di arresti, omicidi, deportazioni compiuti all'indomani dell'ingresso in città delle truppe di Tito.
Il 20 luglio '45 la Pontificia commissione di assistenza trasmette alla segreteria di Stato la lettera di un ufficiale dell'esercito alleato sulla situazione dei prigionieri italiani e slavi: «Migliaia sono stati massacrati nelle foibe e nelle voragini di San Canziano. Migliaia vengono fatti morire di fame nei campi di concentramento. È un sadico sterminio. Il vescovo e la Croce rossa hanno documenti a migliaia. Non si può far intervenire il Vaticano o l'Unrra (l'Amministrazione delle Nazioni Unite per l'assistenza e la ricostruzione, ndr) o la Croce rossa internazionale?».

Sono soprattutto le autorità ecclesiastiche locali a sollecitare un intervento del Papa per fermare le stragi compiute sotto gli occhi dell'esercito angloamericano.
Fra i più attivi il cardinale Adeodato Giovanni Piazza, patriarca di Venezia, e Antonio Santin, vescovo di Trieste.
Un sacerdote di Fiume, Pierluigi Santarelli, lancia un appello al Papa perché venga in soccorso degli italiani finiti sotto l'amministrazione iugoslava dopo l'accordo di Belgrado del 9 giugno '45.
Di fronte a una mole così ampia di denunce era lecito attendersi una risposta immediata di Pio XII per fermare la violenza comunista.

Invece niente di simile emerge dai documenti esaminati da padre Sale. Solo un appunto stringato, inviato all'ambasciata britannica presso la Santa Sede e a Harold Tittman, consigliere diplomatico di Myron Taylor, rappresentante in Vaticano del presidente degli Stati Uniti, Harry Truman. La segreteria di Stato chiede alle autorità alleate di fare «quanto in loro potere per salvare la vita di tanti infelici».

La nota diplomatica era stata preceduta da un breve accenno del Pontefice alla «triste» situazione della Slovenia e della Croazia contenuto nell'allocuzione rivolta al collegio cardinalizio il 2 giugno '45.
Resta da verificare se in altri fondi archivistici sia conservata traccia di interventi di Pio XII in aiuto degli italiani della Venezia Giulia. E forse sarà necessario attendere anni. Ma sulla base di quanto è stato possibile appurare finora, gli storici si dividono nel valutare l'atteggiamento di Papa Pacelli sulle foibe.

«È vero, forse fu silenzio da parte di Pio XII su questo fronte» dice Andrea Riccardi, «ma occorre tenere presente che al termine della guerra Pio XII non si trovò a dover fronteggiare solo la situazione della Venezia Giulia, ma anche di Croazia, Ungheria, Ucraina, Romania.
L'avanzata comunista era appena cominciata e già metteva in pericolo la sopravvivenza della Chiesa con persecuzioni che sarebbero sfociate nell'arresto dei cardinali Alojzije Stepinac in Croazia e József Mindszenty in Ungheria».

Padre Sale ascrive invece la prudenza del Papa alla difficoltà di valutare tempestivamente i fatti. «In Vaticano spesso le notizie giungevano settimane dopo che gli avvenimenti si erano compiuti e quando ormai anche la situazione politica era mutata. È comprensibile perciò che il Pontefice esitasse a prendere delle posizioni che potevano risultare controproducenti o tardive».

Raoul Pupo, infine, invita a distinguere l'atteggiamento del clero locale da quello del Vaticano: «Stragi e deportazioni furono esplicitamente denunciate dai vescovi dei territori coinvolti.
Le segnalazioni giunte a Roma rafforzarono la convinzione del Vaticano che la situazione delle popolazioni, in particolare dei cattolici, nei paesi sotto controllo comunista sarebbe stata assai grama.
E dietro le scarne parole del Papa stava dunque anche il timore di inasprire una realtà di persecuzioni e di stragi che riguardava tutta l'area in cui Tito stava instaurando il suo regime».
Si apre comunque un inedito fronte di discussione su Pio XII mentre l'iter della causa di beatificazione che potrebbe portarlo sugli altari ha superato l'esame della commissione storica e si appresta a passare alla commissione teologica.
Le sorprese non sono finite.

1 Comments:

At 1:33 AM, Anonymous Anonimo said...

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