giovedì, luglio 20, 2006

Senza se e senza ma: la pace senza i pacifisti.


Caro Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto; sarebbe meglio farlo
di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato, ma tu sarai così generoso
da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede libero, in
un autogrill.

Comincerò con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il
mio eroe.
Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione, ora smina da volontario
coi miei amici di InterSos in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane
donna, in Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria.


Voleva salvare vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire
di campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine:
gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera.
Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te.
Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia
bisogna che qualcuno si occupi della questione generale, di mettere al bando
le mine, la produzione, lo smercio, l'impiego eccetera.

Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a disinnescare
o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni di mine;
si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura dietro
l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra,
posatrice di mine e avida di mutilazioni.

Tu curi la gente, e quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci,
ti affidi all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle
vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace,
c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo
che voglio litigare.

Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi
la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una
domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro:
"Buskashi").
Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far
finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare.
Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra.

In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed
eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una
specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo Taliban.
Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini, territorio infeudato
a un'Internazionale del terrore.

Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia
dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11
settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi,
e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire
a riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel paese. Non
sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse il leader da sostenere.


Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza
macchia, benché fosse un eroe.
Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di
concentramento e di torture.
Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute,
e c'è bisogno urgente di soccorso.

È così nella cura per la salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla
salute, c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il
ricorso alla chirurgia.
Le persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta
salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia:
e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo Afghanistan
non successe niente.

Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre,
l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana
- e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato
in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a
Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente
contro l'Afghanistan del mullah Omar.

Ogni volta che si ricorre alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti.
Ma in Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di guerre.
Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan
del dopo 11 settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda,
bisognava intervenire?
Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse
il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque
come a un'infamia bellicista?

Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col
proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di
innocenti, fosse pure un solo innocente.
Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il convincimento
morale di un singolo individuo.
Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista.

Un responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere
relativa, non è meno rigorosa.
Non si illude di escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti,
ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri,
anche i più colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura
sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone innocenti,
e dei bambini.
Non ammette che, in nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino
oggi degli innocenti.
Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria
gente.

Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in qualunque
altro luogo del mondo.
Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente
a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato.
Solo il pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo.

L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti
cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in
Afghanistan sono più numerosi o molto meno?
Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate sono più o meno? Si
mettono nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o meno?

È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle
donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A
Kandahar, lo portano pressoché tutte.
A Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate.
Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di
più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono pagate
dai fotografi occidentali!

Affermazione enorme, se fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto
ti stia a cuore quel paese.
Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul
non viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi?
Perché nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario,
sembra di leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era?
Perché il ritorno di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene
salutato con le lacrime agli occhi?

Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito
per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più
che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi
proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale
che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra
Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in
pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo,
non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva,
lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano.

L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale.

Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace,
ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata
internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni,
come a Timor est.

Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia,
e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione
fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro.
Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata
che sia.
Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature
assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima, spiegazione.
Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba essere la
condizione della convivenza civile in ogni parte del globo.

Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati
a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli
della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di
mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo.

Non riesco a capacitarmene, e mi spaventa.
Mi spaventano le persone che mi sono care, note e ignote, che ripetono generosamente
di essere sempre e comunque contro l'impiego della forza.
Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica,
e che cosa è successo, e quando.

Adriano Sofri

Bandiera della Jugoslavia che fu