martedì, maggio 04, 2010

Tito trent'anni dopo


E’ il 4 Maggio 1980, e in un Paese distratto dalla festa dei lavoratori – evento quanto mai importante in un Paese, la Jugoslavia, di osservanza comunista seppure a modo proprio, è una domenica abbastanza nuvolosa.
Da qualche mese il padre padrone dello Stato, l’ottantottenne Josip Broz, meglio conosciuto come Tito si trova in Slovenia per sottoporsi a svariate cure mediche anche se la popolazione lo ritiene quasi un personaggio immortale.
Non può essere diversamente: il personaggio è davvero carismatico.
Leader del movimento partigiano più importante del continente, (l’unico che abbia davvero sconfitto militarmente gli eserciti nazifascisti praticamente in proprio) il “Maresciallo” aveva rifondato la Jugoslavia e – seppure allestendo uno duro stato di polizia (come dimenticare Goli Otok e l’epurazione della popolazione italiana da Istria e Dalmazia) – era prima sopravvissuto alla rottura con il comunismo ortodosso di Stalin e successivamente divenuto un leader di caratura mondiale, fondando il “movimento dei non allineati” e giocando con grande abilità sullo scacchiere delle relazioni internazionali.
Comunista pragmatico, a est ma aperto all’occidente e ai suoi (copiosi) finanziamenti, Tito riuscì a trasformare un Paese povero e completamente distrutto dalla seconda guerra mondiale (che in Jugoslavia conobbe alcuni tra i suoi momenti più brutali, per la concomitanza di una spaventosa guerra civile) in una nazione benestante e rispettata, i cui cittadini potevano viaggiare in ogni parte del globo liberamente e pur in un regime di stampo comunista vi era un grande fermento culturale e di idee. Insomma qualcosa di assolutamente sconosciuto ad ogni altro Paese dell’Europa orientale, sotto il criminale dominio sovietico.
Eppure le grandi capacità del politico Tito non sono bastate a preservare la Jugoslavia.
Non sono bastate cinque riforme costituzionali, sempre più autonomiste, a tenere insieme le repubbliche e le nazioni.
Forse non poteva finire in altro modo.
Il sistema era malato: l’economia non funzionava, il tanto celebrato sistema dell’autogestione era un “mostro” tecnicamente inapplicabile e molto spesso un meccanismo di pura facciata. Un fallimento.
Il Paese si reggeva sui finanziamenti che venivano da ovest: prestiti, aziende straniere (la Fiat arriva in quegli anni), rimesse dei tanti emigranti.
La classe politica di ogni repubblica si formava in modo clientelare, le tensioni cominciavano ad emergere ma il carisma del grande leader e il benessere diffuso erano il tappeto che copriva lo sporco.
Fino al 4 maggio 1981: da Lubiana arriva la comunicazione in codice che “la partita è stata cancellata”, ovvero che il grande capo non c’è più.
La disperazione è enorme, incontrollabile e sincera.
Qualunque cittadino ex jugoslavo ricorda ancora oggi dove era e cosa stava facendo nel momento in cui la televisione di stato ha interrotto le trasmissioni per annunciare la morte di Tito.
I funerali portano a Belgrado tutta la leadership politica mondiale.
Forse la Jugoslavia diviene un malato terminale proprio in quella giornata triste e solenne.
Se ne accorgono in pochi.
Il resto è noto.

Bandiera della Jugoslavia che fu