sabato, febbraio 02, 2008

Remondino sul Kosovo



Si avvicina il tempo delle scelte a sud-est.
Domenica la Serbia sceglie il Presidente della Repubblica, il Kosovo invece sembra in procinto di dichiarare (unilateralmente) il proprio distacco da Belgrado, blandita e ammonita dalla Ue (Frattini in settimana era in Serbia, per spiegare al Governo serbo l'offerta di Bruxelles (abolizione del regime dei visti, tempi certi per l'ingresso del paese nell'Unione, in cambio del Kosovo?).
Riporto un articolo di Ennio Remondino (chi mi segue sa che per me è il "maestro") dal Kosovo, e - anche se ho sempre cercato di essere politicamente equidistante relativamente alle questioni balcaniche - stavolta mi devo sbilanciare: spero che vinca Tadic, spero che la Serbia non torni indietro, anche se lo stesso Tadic non è così migliore di tanti altri.
Incrociamo le dita e adesso microfono a Remondino (ringrazio Paolo da Pristina per la segnalazione).

La tombola kosovara al via
Da Mitrovica a Pristina, sulla «bomba» indipendenza. Thaqi: «L'Italia dira si»
Ennio Remondino
Pristina

Che Francesco Cossiga sia uomo di rispetto su argomenti di intelligence militare e di strategie atlantiche è noto. A metà strada tra politica interna e internazionale, una sua dichiarazione dei giorni scorsi meritava più attenzione. L'ex Presidente annunciava il suo voto a sostegno di Prodi per fare un favore a Forza Italia. Il Presidente Emerito suggeriva a Berlusconi di lasciare ancora la palla a Prodi, visto che tra le altre grane internazionali incombenti, «bisogna ricominciare a sparare in Kosovo». La profezia cossighiana concludeva con la solita coda al veleno: «Quando è Prodi a bombardare Belgrado la guerra diventa una missione di pace..». Che sia stato il governo D'Alema, da lui sostenuto, nel 1999, a bombardare Belgrado, è dettaglio che gli avrebbe rovinato la battuta.
Dal Kosovo, dove mi trovo, l'impressione che Cossiga possa avere ragione forte. Lui certamente sa più di noi ma a volte, per capire, basta solo guardarsi attorno. Proprio mentre il premier kosovaro albanese Thaqi manda a dire che l'Italia sarà «tra i primi paesi a riconoscere l'indipendenza» (sic). Sono entrato in Kosovo percorrendo la «Ibarska magistrala
», la statale che da Belgrado porta verso il Sangiaccato e il Montenegro. Al confine amministrativo della provincia di «Kosovo i Metohja», la polizia ti chiede il passaporto, per vedere - dice - da dove sei entrato in Serbia. L'aeroporto di Pristina, per esempio, non è frontiera internazionale riconosciuta da Belgrado. Poco oltre, una bandiera Onu ti propone un secondo confine che, a sua volta, ufficialmente non esiste. Poliziotti e doganieri serbo-kosovari che vedendo l'auto targata Belgrado ti fanno segno di passare ed una rotonda poliziotta con bandierina americana sulla spalla intenta a farsi vezzeggiare da atletici colleghi indigeni. In fondo alla cupa vallata mineraria, finalmente Kosovska Mitrovica, che sparge i suoi casermoni popolari tra le due sponde del fiume Ibar.
Da questa parte del fiume è ancora Metohja, la terra dei monasteri cristiani ortodossi. Lungo la Ibarska ne trovi uno ogni qualche decina di chilometri. Mitrovica, da questa parte dell'Ibar, Serbia delle viscere. Oltre il ponte vigilato dalla «legion» francese della Nato, i primi minareti del Kosovo albanese. A Mitrovica ci sono soltanto tre cose da vedere: il ponte, appunto, attorno a cui si combattè nel 2004, pronto oggi a tornare trincea, l'imponente ciminiera di cemento alta più di centro metri che fa da obelisco mortuario alla miniera-stabilimento per estrazione e lavorazione di piombo, zinco e un po' di oro. Poi, su di un aspro picco isolato, i resti della roccaforte crociata medioevale. Sventola un'enorme bandiera serba, e non riesco ad immaginare chi mai potrà arrivare sin lassù a toglierla.
La strana vita da avamposto della Mitrovica serba ruota attorno al solo hotel decente di Mitrovica, sei camere striminzite e tutte prenotate per assistere da questa parte del fronte all'ormai imminente patatrac, e al bar Dolce Vita, che fronteggia il felliniano ponte-frontiera servendoti un ottimo espresso italiano. Il mercato di strada fatto da vecchi per i vecchi, qualche velleità di negozio ad offrire la moda della normalità dove di normale non c'è nulla. Giovani che girano in tondo alle stesse strade, senza prospettiva visibile di futuro, salvo immaginarli presto ad imbracciare attrezzi non da lavoro. Al bar-ristorante dove si succedono gruppi di militari francesi in missione di fratellanza, al solo punto Internet, incontro un prezioso collega bulgaro. Agenzia di stampa ufficiale. Parla il serbo come io l'italiano, e il romanesco come io il genovese. Venti anni a Roma, corrispondente, quando ancora la Bulgaria era il braccio armato del «Regno del male». L'amico bulgaro, uno che sa, conclude a slivovica: «Non sanno in che casino stanno cacciandosi». Quelli che non sanno, sono i governi dell'Ue.
Da Mitrovica a Pristina, mezz'ora di strada che dobbiamo percorrere togliendo la targa all'auto a noleggio. La sigla Belgrado non è apprezzata. Ai blocchi di polizia albanese che ti fermano, accredito stampa italiano e la visione delle targhe nascoste. Uno dei poliziotti ammette che "è meglio così" . D'ora in avanti, solo il taxi albanese del mio amico Janez. A Pristina, l'ufficio giornalistico Rai s'insedia come sempre nella trattoria romagnola dedicata da Antonella «Al Passatore» italiano smarrito in terra e cucina albanese.
Gli altri contatti giornalistici sono segreto professionale, come i piani di evacuazione distribuiti ai 150 italiani dal Consolato locale. Se mai fosse emergenza, 25 chili di bagaglio in cui chiudere questa infelice esperienza internazionale sotto la bandiera Onu. L'apparato militare Nato evita i giornalisti più del possibile nemico e i carabinieri Msu diffidano di noi quasi fossimo pregiudicati sottoposti al 41 bis. Per loro l'atroce dilemma di essere i guardiani della risoluzione Onu 1244, che fa a pugni con la missione Ue che arriverà a garantire un Kosovo albanese. Italiani contro italiani, potrebbe anche accadere. L'ambasciata ufficialmente rassicura. In questa vigilia il solo esercizio speculativo che vale è la «tombola kosovara». Indovinare il numero vincente del giorno della proclamazione unilaterale d'indipendenza. Io personalmente ho puntato la posta sul 6, ruota di febbraio, con tanto di prenotazione aerea. L'Ue ufficialmente insiste su marzo per fare un favore a Zapatero nella Spagna elettorale
Nel frattempo, per i Balcani è tutto un gran viaggiare. Nei giorni scorsi il neo premier kosovaro Thaqi a Bruxelles, dove Solana l'ha benedetto come suo «migliore amico» in Kosovo. Tempo fa era premier Ramush Haradinaj, anche lui amico dell'Europa, contro il quale, nei giorni scorsi, il Tribunale internazionale dell'Aja ha chiesto la condanna a 25 anni per crimini di guerra. Suggeriamo a Solana un po' di prudenza affettiva. Intanto qui a Pristina è arrivata la delegazione albanese di Albania, con il suo presidente Bamir Topi. Poco opportuna per le apparenze ma rivelatrice di molto futuro. Sui siti dei milioni di albanesi all'estero, quelli che contano, si continuano a proporre mappe e progetti sulla Grande Albania che s'ingrasserà con pezzi di Macedonia, Serbia, Grecia e Montenegro. Sul fronte opposto, la Serbia offesa, ripercorre le sue origini slave con un pellegrinaggio presidenzial-governativo a Mosca. Usa e Russia giocano le loro carte. L'Ue paga la posta.
Leggo dalle dichiarazioni ufficiali che vengono da Bruxelles, che l'Ue si muoverebbe «compatta» verso la nuova sfida del Kosovo albanese indipendente. Auguri Ue - e Italia -, mi viene da ripetere, detto alla Cossiga, pensandola come il mio collega bulgaro.

Bandiera della Jugoslavia che fu