martedì, marzo 20, 2007

Balcani, geopolitica cimiteriale

(di G. Punzo, tratto da paginedifesa.it)
Il governo della Bosnia-Erzegovina, dopo anni di trattative tra le sue diverse componenti, costituirà a breve un ente pubblico statale incaricato della individuazione dei luoghi di sepoltura dei resti delle vittime della guerra (Missing Persons Institute). Dalla fine della guerra, con finalità simili avevano operato nell’area post-jugoslava varie organizzazioni governative (prima fra tutte la Croce rossa internazionale) e non governative (di differenti dimensioni e impostazione) la cui attività era incentrata sulla ricerca dei dispersi, sulla determinazione dei luoghi di sepoltura e sulla identificazione delle salme ritrovate.
Unitamente ai comitati locali, espressione cioè di specifici assetti etnici, negli anni passati sono stati riesumati 18mila corpi, di cui solo quattromila identificati. Lo scorso anno nella sola Bosnia sono state individuate 22 fosse comuni e 168 salme isolate. La novità costituita da questo nuovo istituto consiste nell’occuparsi ora di tutti i dispersi, superando in tal modo le difficoltà di un’azione svolta in precedenza da vari soggetti che però, pur avendo una finalità, unica, risultava mal coordinata.
La gestazione di questo istituto è stata lenta e deriva dalla International Commission for Missing Persons, costituita nell’agosto del 2000, che non aveva avuto vita facile. I motivi sono evidenti. Il ritrovamento di un gruppo di corpi all’interno di una fossa comune non solo indirettamente rimanda al responsabile materiale della loro morte, ma produce ripercussioni in materia di proprietà e successione, nonché sul piano demografico-amministrativo, ovvero sulla stima della popolazione residente in una certa area e anche sulla compilazione delle liste elettorali. Basti pensare poi che solo una ristretta minoranza di IDPs (Internally Displaced Persons) è rientrata nella propria casa di prima del conflitto e la maggioranza invece ha spesso occupato case di persone scomparse o dichiarate morte.
La situazione generale dei dati certi sugli scomparsi, insomma, anche in mancanza di un attendibile censimento della popolazione non ancora realizzato nel dopoguerra, non era mai stata esplorata fino in fondo. Dalla creazione di un unico data-base centrale ci si attende finalmente chiarezza, mentre l’istituzione di un organismo statale dovrebbe superare definitivamente le resistenze di tipo etnico-politico manifestatesi in passato. Il condizionale è d’obbligo in quanto, secondo fonti alla Commissione federale per le persone scomparse, si preannuncia già la non-collaborazione di un gruppo etnico e contemporaneamente le vibrate proteste di un altro.
L’attività inter-etnica di un organismo come quello bosniaco potrebbe – se questa azione fosse condotta correttamente, con rigore e imparzialità e con risorse adeguate – estendersi a tutta l’area ex-jugoslava, dove gli scomparsi dichiarati ufficialmente sono circa 40mila dei quali 2.400 in Croazia e 2.200 nel solo Kosovo, che supera di poco i due milioni di abitanti. In Kosovo in particolare operano da anni l’Office on Missing Persons and Forensic e il Medical Examiner’s Office in coordinamento con la polizia di Unmik, con un bilancio di parecchie decine di migliaia di dollari l’anno.
Altro aspetto da sottolineare ora tornando alla Bosnia è che le tecnologie utilizzate sulla ricerca e l’analisi del Dna hanno sviluppato un metodo applicato con successo sui corpi delle vittime dello tsunami, sui resti di numerosi corpi di vittime dell’11 settembre e dell’uragano Kathrina. In Iraq, dove le vittime della repressione di Saddam assommano a svariate decine di migliaia e il numero degli scomparsi è elevatissimo, si parla già di adottare il metodo bosniaco. In parallallelo inoltre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa sta svolgendo un’azione di sensibilizzazione globale sul problema degli scomparsi, a cominciare dal sostegno alle famiglie, ivi compresi gli aspetti psicologici ed economici.
Dietro queste iniziative, che rappresentano pur sempre una macabra per quanto necessaria attività – dettata certo da esigenze amministrative, ma anche da un normale sentimento di comune pietas nei confronti dei defunti – si nascondono altri problemi complessi la cui dimensione non è più quella della solita lite condominiale balcanica. Il tema è molto sensibile e richiede estrema attenzione, perché soprattutto si riverbera inevitabilmente sui processi di nation-building, di formazione dell’identità e della memoria collettiva. A Sarajevo in particolare, grazie a fondi della Unione Europea, è attivo da qualche anno un centro della memoria e cioè un istituto dedito al censimento delle vittime e alla compilazione di un data-base: modello ispiratore e filosofia operativa sono state mutuate dal centro per la memoria dell’Olocausto.
Il principio alla base del censimento è quello che, in assenza di una memoria materiale e fisica delle vittime che arriva a comprenderne talvolta perfino una breve biografia, non è possibile conservare la memoria collettiva del genocidio e quindi elevare la soglia di attenzione per evitare che in futuro si ripetano le condizioni che hanno favorito i massacri. D’altra parte, però, anche la legittimità della fragile istituzione statale bosniaca poggia proprio su queste memorie, perché l’imperativo di Dayton fu quello di far cessare la pulizia etnica nel modo più rapido, anche a costo di prenderne atto nella spartizione territoriale.
La questione in generale a noi europei occidentali è abbastanza nota – per quanto poco compresa – e si tratta di un problema che si può far risalire alle soglie dell’età contemporanea con tutti i suoi sviluppi sino ai nostri giorni. Come considerare i corpi dei caduti in guerra e – via via con l’evoluzione di questa – come considerare quelli delle altre vittime della guerra, soprattutto civili, il cui numero ha finito per eguagliare e superare alla fine quello dei caduti in combattimento? A Napoleone, che inventò i primi monumenti ai caduti dopo le sue battaglie in tutta Europa, si suole attribuire una frase non priva di una certa arroganza: “Dove è sepolto un soldato francese, è Francia”, ma le cose all’epoca erano abbastanza semplici.
Le vittime civili praticamente non esistevano in quanto tali e fino alla metà dell’Ottocento le perdite dei conflitti aumentarono enormemente, ma rimasero sempre confinate al solo ambito militare. Le svolte furono: la battaglia di Solferino in Europa (quando non a caso nacque anche la Croce Rossa) e oltre oceano la Guerra civile americana (quella che noi però chiamiamo ancora Guerra di secessione). Nacquero così i grandi cimiteri di guerra che si perfezionarono fino alla forma attuale dopo la prima guerra mondiale, i luoghi della memoria, i parchi della rimembranza e sino ad oggi, almeno in Europa occidentale, si può dire che essi non abbiano ancora perso il loro significato, benché comunque onorati e frequentati molto meno che in passato.
Tutta la questione si complica maggiormente però con quanto è accaduto dalla seconda guerra mondiale in poi e soprattutto dopo il crollo del Muro. Accanto ai caduti in guerra dopo il 1945 ci sono anche le vittime dell’Olocausto e le vittime civili, ad esempio dei bombardamenti. Dove furono realizzati monumenti o cimiteri a queste categorie di non combattenti risultò evidente un archetipo di origine militare, anche per la necessità di ordinare un grande numero di salme e resti. Dietro la costituzione di questi cimiteri esiste anche però la fondazione di un’era nuova, la cui legittimità risiede proprio in queste sepolture, come fu osservato nei discorsi ufficiali in occasione del 50° anniversario del D-Day.
Katherine Verdery (autrice di The Political Live of Dead Bodies. Reburial and Postsocialist Change, 1999) ha osservato che tutta l’Europa orientale è stata interessata da una sorta di seconda vita di personaggi altrimenti obliati (sovrani come gli zar di Russia o Bulgaria o per motivi opposti Imre Nagy in Ungheria) o detestati (si pensi al caso di Lenin sotto le mura del Cremino) per dare nuova legittimità a vecchie aspirazioni o più semplicemente rafforzare nuove nomenklature. Operazioni di disseppellimento o di spostamento di salme in parallelo al seppellimento delle ideologie o alla nascita di nuove identità. Non bisogna dimenticare, tornando ai Balcani, il significato che ebbe per i serbi la peregrinazione dei resti del principe Lazar prima della esplosione di violenza ai tempi di Milosevic.
Se applichiamo ora gli stessi concetti di cui abbiamo parlato alla nascita delle nuove entità statuali dopo la dissoluzione jugoslava, comprendiamo subito i vari pericoli che si possono nascondere dietro un’azione come quella dei comitati indipendenti per la localizzazione delle salme e per la loro identificazione. Indubbiamente meglio, senza alcun dubbio, che questo delicato compito con tutti i suoi valori simbolici retrostanti sia affidato a un ente statale che ci auguriamo sia veramente super partes.
Nel frattempo i serbi del Kosovo – ormai da parecchi mesi – stanno trasportando le salme dei loro parenti in altri cimiteri in Serbia, e non solo perché a Suva Reka nel mese di novembre dello scorso anno, ad esempio, un trattore di traverso sulla strada ha impedito per ore il transito di un bus con passeggeri serbi che si recavano presso i cimiteri della zona. A seconda dei vari comuni interessati, la tassa fissa va da uno a 20 euro e i costi del trasporto, effettuati da imprese kosovare albanesi, variano dai 200 ai 400 euro. Già da anni il paesaggio del Kosovo, come aveva osservato acutamente il generale Mini, è diventato un unico cimitero open-space, punteggiato da lucide lastre di granito sotto le quali non sempre si trovano i resti del caduto dell’Uck che si vuole ricordare, ma immancabilmente sventola una bandiera rossa con l’aquila nera bicipite.

Bandiera della Jugoslavia che fu